Versione estesa di un mio contributo su http://biviopedagogico.wordpress.com/
Primo scatto: una notizia.
Primo scatto: una notizia.
«L’idea sembrava geniale. Aprire la
curva chiusa per i cori razzisti ai piccoli tifosi. Peccato che durante Juventus-Udinese i ragazzini abbiano insultato Zeljko Brkic, portiere della squadra
friulana.» (Il foglio 3 dicembre 2013).
Secondo scatto: una spiegazione.
«Marotta A.D. della Juventus “noi
abbiamo voluto riempire lo stadio perché, diceva un sociologo, “il calcio senza
spettatori è pari allo zero”, era impossibile vedere delle tribune vuote»
(Corriere dello Sport 2 dicembre 2013)
Terzo scatto: l’opinione.
«Paolo Pulici oggi allena
i giovani ragazzi della Tritium a Trezzo d'Adda ed interpellato sui giovani e
del cattivo esempio dato dalle famiglie: "La
mia squadra ideale è una squadra di orfani. Molti rovinano i figli senza
nemmeno rendersene conto. Non hanno raggiunto i risultati sperati e riversano
sui bambini le proprie frustrazioni. Dai, diventa ricco e famoso, così possiamo
comprarci la villa"». Corriere
della sera 6 Dicembre 2013
Paolino Pulici, 172 gol con la maglia
del Torino, è stata una mia bandiera, una delle ultime ma questo
è un altro discorso.
Qui c’è tutto un mondo: il pedagogico
che passando per lo sport diventa letteratura, di più, filosofia.
La sola idea di una squadra di bambini
orfani sembra la trama ideale per una fiaba, per un racconto o perché no un
film.
Niente di nuovo, sia chiaro, basta
pensare all’ideale greco che assegna il primato della collettività alla
dimensione privata della famiglia. La responsabilità educativa è innanzi tutto
della polis prima che della famiglia.
Che dire poi del riferimento allo sport.
Già perché qui non si dice la prepotenza, la provocazione, il comunitarismo educativo richiede il suo
primato quando si parla di sport. Un richiamo che non può non far pensare al
ginnasio, la palestra dove formare l’uomo quale membro della città. Di più
richiama l’ideale educativo comunitario più autentico e spietato : quello di
Sparta e i suoi cittadini soldato. Già perché se la squadra è di orfani
probabilmente anche l’orizzonte di vita atteso di questi orfani si dovrà
spendere all’interno della dimensione sportiva. L’esperienza sportiva è
autentica non solo per crescere la disciplina, le virtù sportive e le
competenze connesse ma perché è l’esperienza sportiva è paradigma stesso
dell’educazione.
Più semplicemente la possibilità di
educare in assenza di genitori rappresenta il sogno pedagogico di ogni
educatore, finalmente libero di lavorare senza fastidiose interferenze,
plasmando al meglio la materia con cui si opera.
Ma c’è molto altro
L’affermazione di Pulici infatti non è
una proposta metodologica, non un programma di lavoro ma è molto meno di un
auspicio, piuttosto, uno sfogo dettato dalla frustrazione di non poter
esercitare la professione di allenatore nel pieno del suo significato
educativo. Lo sport, il calcio, si ritrova oramai ostaggio dei più bassi
istinti dei genitori dei atleti , dalle aspettative di riscatto delle ambizioni
frustrate dei genitori riverse sui figli, da una passione per la disciplina
sportiva alimentata quasi esclusivamente dalla ricerca del successo e della
ricchezza, non dal desiderio di crescita e dall’amore per il gioco.
Allenare senza genitori di torno è anche
una manifestazione di impotenza: una disperata richiesta che qualcuno si prenda
carico di educare questi genitori, già che lo sport non è più in grado di
insegnare loro alcunché. Il genitore non
è nemmeno il destinatario dello sfogo perché, considerato oramai come l’attore
di una vicenda educativa cui si farebbe volentieri a meno.
C’è da chiedersi come agisca il genitore
la rovinosa azione disturbante. Facile immaginarlo mentre trasmette ed enuncia
i propri valori e le proprie ambizioni rivolto ai figli, a tavola o nel
tragitto per andare alla partita, oppure mentre impreca durante la settimana
contro l’allenatore colpevole di far perdere la squadra o di non tenere nella
giusta considerazione le doti del figlio. Ma l’azione più incisiva ed efficace
del genitore è quando impreca dagli spalti, quando mette in scena il suo
peggio. Quindi proprio quando entra nella parte che gli è assegnata dal
dispositivo del calcio, altrettanto costitutiva del calcio come sport: lo
spettatore, il pubblico ma soprattutto il tifoso.
Infatti, su questo aspetto, Marotta ha
ragione quando sostiene l’insussistenza del calcio come spettacolo in assenza
di un pubblico. Chi altri sono i componenti del pubblico, nei tornei giovanili,
se non tanti e tanti papà che avrebbero il compito di conformarsi alle buone
maniere e ai valori dello sport ed invece spesso sovvertono anche le minime
regole di buon senso.
Ecco un primo paradosso che è bene
sottolineare. Se il calcio ha da dire qualcosa sul piano educativo (e non mi
sentirei mai di sostenere il contrario) sia pure, il calcio, si può manifestare
e realizzare a pieno solo se ricompreso inquanto evento di spettacolo, al
pari di una piece teatrale. Il calcio è spettacolo: c’è una ribalta, gli
spalti, gli spogliatoi, gli attori, i registi, le regole entro le quali le
azioni che si svolgono hanno un senso, un tempo finito, una trama, financo
uscieri, bigliettai e vigili del fuoco e solo se tutti assieme si funziona si
ha un buon spettacolo. Il tifo stesso è parte dello spettacolo senza il quale
lo sport invece che competizione offrirebbe alla vista solo noiosi e poco
significativi gesti atletici.
Chi può o forse chi deve educare questi
genitori? Non l’allenatore (vuoi per abdicazione vuoi per convinzione) che non
li riconosce destinatari della propria azione educativa, né gli atletici figli,
figuriamoci, né la Federazione del Calcio, a meno che possa pensarsi un calcio
senza spettatori, appunto.
Per centrare l’affermazione di Pulici ho
provato a chiedermi se vale anche per altre discipline sportive.
Ad esempio «il centometrista ideale è
quello senza genitori». Come potrebbe esistere un atleta dei cento metri senza
un genitore che lo aiuta ad affrontare trasferte, che lo scorrazzi in giro. E
quale genitore sogna successo e soldi in una disciplina dove di denaro ne gira
ben poco.
Forse nel calcio questo invece potrebbe
anche accadere. Nel calcio girano tanti soldi, certo più di ogni altra
manifestazione sportiva almeno in Italia. Il sogno pedagogico si può realizzare
più realisticamente nel calcio proprio in forza della sua rinomanza. Paradossalmente
proprio quei soldi e la sua diffusione sono l’ostacolo per una autentica
esperienza educativa calcistica. Già perché quel denaro si origina proprio
dalla vocazione spettacolare, dalla notorietà, dalla spettacolarizzazione del
gioco del calcio.
A pensarci bene l’unico senso che
avrebbe il pensiero di un centometrista senza genitori sarebbe un segno di
tutt’altro segno: quello del doping. E a pronunciare la frase potrebbe
benissimo essere il preparatore atletico, il medico il farmacista dell’atleta.
Nessun padre se sapesse cosa deve passare nel corpo del proprio centometrista
accetterebbe di buon grado il rischio per la salute per raggiungere il primato
sportivo.
E provando con altri sport, ancora, mi
sembra che la frase funzioni poco. Ad esempio, il ciclista ideale non può
essere orfano quando spesso il ciclismo è uno sport che si tramanda e si
trasmette di padre in figlio
Ma è poi davvero un sogno operare in
assenza di genitori. Non è semplicemente una aberrazione? Al pari di qualsiasi
altra idea totalitaria. Più che sogno un incubo. L’impero del pedagogico. Nessuna
esperienza può dirsi davvero educativa se non si sa confrontare con un contesto,
con il mondo della vita. L’onnipotenza dell’educazione è il nodo contro il
quale ogni educatore si scorna nella propria professione: l’incapacità di
ritagliare il giusto ruolo all’educazione, parte di un sistema. L’incapacità di
riconoscere i vincoli dello spazio entro il quale è possibile operare e della
durata nel tempo di ogni azione, di obiettivo e di ogni verifica di risultato.
Di nuovo, quale esperienza educativa è
possibile senza un ritorno costante al mondo della vita. Quale competenza è
appresa se non è spendibile altrove.
In qualche modo e, certo, a suo modo la
federazione del calcio ha provato ad affrontare un nodo della matassa e prova
ad educare l’adulto negandogli la curva se non è in grado di corrispondere a
semplici limiti morali ed etici. Qualche illuminato cerca di sovvertire le
regole del gioco portando allo stadio i figli quale esempio per i padri, salvo
poi scoprire che i padri restano sempre l’esempio dei figli.
In fondo anche l’allenatore,
l’insegnante, l’educatore provano ad educare l’adulto formando i figli. Se un
adulto sa ascoltare sa guardare il figlio che cresce può imparare che è
possibile crescere quando si persegue la passione, la gioia e l’amore per il
gioco.
Ed allora, caro Paolino, condivido
questa affermazione perché rimarca il paradosso, amplifica il cortocircuito che
non si può interrompere. E’ l’unico modo per attribuire a tutti il proprio
pezzo di responsabilità.
Al genitore il compito si essere
genitore e tifoso, cercando la migliore sintesi tra le due dimensioni.
All’allenatore il compito di proporre
una esperienza sportiva agli atleti e di nominare ai genitori la posta in
gioco.
Alla federazione che ha il compito di
stabilire la misura dell’asticella, determinare e far rispettare le regole del
gioco.
Allo Stato che ha il compito ultimo di
marcare la differenza tra spettacolo - che in quanto tale è finzione, normato
da leggi e regole che valgono solo all’ interno di quel contesto - e la
delinquenza, l’illegalità.
Alla stampa che ha il compito di
promuovere lo spettacolo senza impoverirne il contenuto con una spettacolarizzazione
a tutti i costi.
Ai ragazzi il compito di farsene una
ragione provando a prendere il meglio di tutta questa esperienza
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